fino al 16.VI.2012 Luciano Romano Napoli, Studio Trisorio

exibart / 11 giugno 2012


NAPOLI. Tra fondali e colonnate, oppure su per le scale elicoidali attratti da glorie di luce, istantanee di civiltà dove l’architettura incontra il teatro, la fotografia, la storia -

Nel 1985 Maurizio Grande asseriva: «Perché l’Io si districhi dal mondo, erigendone l’immagine davanti a sé, occorre una “disponibilità alla rappresentazione” che si realizza tra un soggetto spettatore e un mondo-spettacolo. […] Se il soggetto si erge difronte al mondo, l’Io erige, edifica il mondo come rappresentazione». Consegnando alla letteratura di genere la più compiuta definizione di teatro, non pensava certo che, qualche decennio dopo, essa avrebbe abbandonato il palcoscenico preferendogli l’invisibile sobrietà della camera oscura di Luciano Romano, che pure del teatro è stato cadetto. All’artificio della maschera si sostituisce quello dell’obbiettivo, non già per superare la mimesi, quanto per sublimarla in un racconto obliquo che preferisce la curva grafica della domanda alla linea retta dell’esclamazione.

Curvo è infatti lo spazio accolto nel fotogramma e offerto allo sguardo secondo logiche di ripresa che non si limitano a scuotere la certezza della denotazione, sgombrando il campo anche da tropi logorati dal troppo uso. Così la scala, sia che si avviluppi verso l’alto come un’Annunciazione lanfranchiana (Scala#1911 Napoli, Palazzo Mannaiuolo) o che invece sprofondi nelle cavità di un inferno cittadino (Scala#1943 Napoli Sotterranea), diventa luogo metaforico – nuovo – dove la distanza tra Dio e uomo si assottiglia, quest’ultimo scoprendosi demiurgo: edificatore, ritornando a Grande.

Santificazioni per via d’architettura, dunque, generate e subito discusse nella sala al piano rialzato, dove il mito di una Übermenschkeit spira dietro il cancello del palazzo di Vaccaro in piazza Matteotti a Napoli (Atrio#1936 Posta Centrale), lasciando posto ad architetture scarnificate come sculture di Giacometti, mentre il corpo nerboruto degli atleti al Foro Italico (La città di Marmo) guadagna le quinte: la scena è ora brusìo di scarpe contro il cielo di una metropoli (The big apple). Anche il colore cambia, facendosi artificioso e cupo.

Quella di Romano è dunque una inquadratura che scopre, nello spazio edificato, la traccia storica di paesi e civiltà, il tentativo/illusione di un progressivo superamento: una torre di Babele al contrario, dunque, simbolica e avanguardistica, a ricordare quanto si è ancora lontani dal raggiungere il cielo.

Carla Rossetti


 
Previous
Previous

Studio Trisorio, Napoli. Marisa Albanese

Next
Next

Lo sguardo obliquo