Jan Fabre“Ho messo davanti al Caravaggio un uomo con la croce così l’arte ci interroga sul bene e il male”

la repubblica napoli / 25 marzo 2019


L’artista belga Jan Fabre torna a Napoli con una mostra che si fa in quattro: meno scienza (l’argomento che ricorre di più nei suoi lavori) e più storia. Il suo progetto napoletano parte dallo Studio Trisorio (inaugurazione venerdì alle 19 in Riviera di Chiaia, 215) per approdare ai musei di Capodimonte (apre sabato alle 11,30) e Madre (dalle 11 di sabato) e poi al Pio Monte (dalle 9 sempre di sabato) in dialogo con “Le sette opere di Misericordia” di Caravaggio.

Fabre, lo può raccontare?
«È accaduto in maniera organica che Melania Rossi e Laura Trisorio curassero la mostra “Omaggio a Hieronymus Bosch in Congo” allo Studio Trisorio. Da più di vent’anni ho ottimi rapporti spirituali con Laura Trisorio, lei e Melania Rossi sono state le forze guida che hanno permesso questi importanti progetti a Napoli. “Oro Rosso. Sculture d’oro e corallo, disegni di sangue” sarà a Capodimonte. Sylvain Bellenger mi ha invitato e sono rimasto impressionato dalla collezione del museo. Abbiamo fatto una bellissima visita di cinque ore e il direttore mi ha mostrato con moltissima eleganza la collezione di Capodimonte; ho visto molti dipinti in cui comparivano i coralli e questo mi ha ispirato a realizzare dieci nuove sculture in corallo appositamente per la mostra “Oro Rosso”».

Dove ha realizzato le nuove opere in corallo?
«Il gentleman e appassionato amante dell’arte Gianfranco D’Amato mi ha aiutato mettendomi in contatto con un’azienda dalla lunga tradizione familiare nella lavorazione del corallo: Enzo Liverino 1894. Ho lavorato a queste sculture per due anni e ho viaggiato più volte da Anversa a Torre del Greco e ritorno con il mio assistente. L’appassionato e flamboyant direttore del museo Madre Andrea Viliani, poi, una sera che eravamo a cena in un ristorante, ha raccontato a me e a Melania Rossi che quando la mia scultura in bronzo “L’uomo che misura le nuvole” fu allestita due anni fa sulla terrazza del museo per alcuni mesi, il personale alla biglietteria aveva riconosciuto visitatori che erano tornati più volte per rivedere l’opera. Tanto che la biglietteria aveva iniziato a regalare l’ingresso a chi tornava. Questa scultura ha instaurato un legame spirituale con il pubblico napoletano, per questa ragione Melania Rossi mi ha convinto a concedere in anteprima mondiale al Madre la versione in marmo bianco di Carrara dell’opera, come regalo per gli spettatori e il pubblico del museo. “L’uomo che sorregge la croce”, nella sua versione originale in cera realizzata con le mie stesse mani, si trova in un luogo bellissimo e storico, il Pio Monte della Misericordia. Il mio lavoro, la mia scultura, è come un amico per me e il mio amico è felice di guardare negli occhi il dipinto di Caravaggio. Questa scultura parla di ciò che rappresenta quel luogo, per questo la curatrice l’ha scelta. Perché è una “consilienza” (saperi diversi che convergono) tra un’opera d’arte e un luogo religioso, inserito in un’istituzione dalla forte vocazione alla carità e all’aiuto verso le persone in difficoltà. L’opera parla dei nostri dubbi, della nostra ricerca di equilibrio. S’interroga: stiamo facendo bene o stiamo facendo male? Contiene l’idea che l’essere umano può sempre fallire».

Il dipinto “Le sette opere” del Pio Monte è al centro della polemica perché non è stato autorizzato il suo trasferimento a Capodimonte per la mostra su Caravaggio. Per lei le opere devono viaggiare oppure no?
«Certamente sono sempre a favore che opere di tale immensa bellezza possano essere viste da tutto il pubblico possibile, ma ovviamente dipende dalle condizioni dell’opera e dal suo stato di conservazione. Per esempio so che ci sono dei capolavori fiamminghi su tavola che sono molto delicati, la cui pittura si può danneggiare, può creparsi negli spostamenti. Non credo però che questo sia il caso di “Sette Opere di Misericordia”, che è un olio su tela».

Il suo spettacolo “Belgian rules/Belgium rules” era già (come lei ha detto a “Repubblica”) “una dichiarazione d’amore al Belgio e ai suoi stereotipi”. Anche questa volta mette in scena allo Studio Trisorio crudamente il suo Paese, raccontandone la lunga storia violenta e buia del periodo coloniale in Congo. Perché?
«Le radici della mostra allo Studio Trisorio sono nell’installazione permanente che ho realizzato circa 15 anni fa, “Heaven of Delight”, una committenza della regina Paola del Belgio per il Palazzo Reale di Bruxelles. Quel lavoro mi ha portato a fare molte ricerche sul passato colonialista del Belgio. In quell’opera usai l’ispirazione che mi veniva dal “Giardino delle Delizie” di Bosch, portando il verde di quel giardino, di quel suolo dipinto, in cielo, sul soffitto della stanza del palazzo. In quell’opera permanente ci sono molti simboli e riferimenti critici al passato colonialista belga. Ci sono simboli dei materiali, come l’avorio o i diamanti, che furono usati dal re Leopoldo per costruire Bruxelles. I lavori esposti alla galleria Trisorio sono quasi una ricerca sulla linea genetica e sull’identità dell’arte belga e fiamminga. Si parla della crudeltà della bellezza e della bellezza della crudeltà».

Il trittico del “Giardino delle Delizie” di Bosch si trasforma in due grandi nature morte dipinte da lei con migliaia di corazze di scarabei. Sono scene del passato che riportano alla ribalta sfruttamento, schiavitù, mito della razza e circa 10 milioni di vittime tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento. Il suo è un lavoro strettamente politico su temi che si ripropongono ancora oggi?
«Fondamentalmente tutto il mio lavoro è politico, ma allo stesso tempo mi piacerebbe che superasse la realtà, perché l’arte che si sacrifica alla follia quotidiana non ha il respiro per sopravvivere nel tempo. L’arte non ha nulla a che vedere con la moda del momento. Non penso che alcun paese europeo che abbia avuto colonie debba vergognarsi. La storia è storia. Tutti noi facciamo sbagli, il bello è che da quegli sbagli possiamo imparare. Penso che tutti i paesi europei che hanno avuto colonie siano consapevoli dei propri errori storici, ma ciò non significa che i movimenti estremisti in Europa, mossi da un punto di vista morale, siano nel giusto quando credono di avere la ragione dalla loro parte. Per esempio nell’idea di rimuovere sculture e monumenti che celebrano il colonialismo. Penso anzi che dobbiamo tenere queste sculture e questi monumenti come una memoria positiva da cui possiamo imparare. Perché tutta l’arte e la bellezza riguardano la memoria. Non possiamo nascondere ciò che abbiamo fatto. Dobbiamo piuttosto perdonarci per le azioni compiute, e attraverso questo perdono, con buon cuore e spirito positivo possiamo prenderci cura con tutto il rispetto e l’amicizia che abbiamo di queste persone che hanno le loro radici nel nostro passato colonialista. Per questa ragione mi vergogno più dell’Europa quando non vuole aiutare tutti i rifugiati che devono fuggire dalla guerra e dalla povertà. Dobbiamo tutti essere umani, aiutare le persone in difficoltà in assoluto. Perché sostanzialmente tutti noi, in Europa, siamo stati occupati da forze straniere; il sangue di tutti noi è misto. Penso al motto dell’Ue: “Unita nella diversità”. Dobbiamo difendere questo continente forte e orgoglioso; l’Europa deve mantenere l’idea che stiamo vivendo in pace da più di settant’anni».

E il suo lavoro come dialoga con queste contraddizioni?
«In fondo le mie sculture “L’uomo che misura le nuvole” e “L’uomo che sorregge la croce” sono metafore dell’umanità che si chiede cosa debba fare, della ricerca di un possibile equilibrio tra i nostri opposti. Sono rappresentazioni del pensiero umano che può interrogarsi sul passato, sul presente e sul futuro. Sono metafore anche delle domande che mi state facendo in questa intervista».

Qual è il suo rapporto con Napoli?
«La amo. Mi accoglie e mi abbraccia sempre. Ogni volta venire qui è come andare in un ristorante a conduzione familiare. Lavoro a Napoli dall’inizio degli anni Ottanta, il mio esordio qui è stato con la fantastica compagnia teatrale Falso Movimento, con Mario Martone, Tomas Arana, Angelo Curti. Ho ancora bellissimi ricordi di tutti loro e spero sempre che ci potremo incontrare ancora in futuro quando saremo ultracentenari».

Renata Caragliano
Stella Cervasio


 
Previous
Previous

Jan Fabre si fa in quattro

Next
Next

Fabrizio Corneli Studio Trisorio, Napoli