Carlo Alfano

segno / giugno—luglio 2016


«Comunque, per me si tratta di non smettere di interrogare quella rete di rapporti che designa la rappresentazione per dimostrare, in fine, come sia possibile. Il mio lavoro tende, appunto, a riflettere su questa impossibilità». Questa dichiarazione, formulata da Carlo Alfano (Napoli, 1932-1990) nel 1985 in dialogo col critico Angelo Trimarco – tra i maggiori compagni di strada ed esegeti dell’artista napoletano -, sembra fornirci una straordinaria chiave di lettura per comprendere il suo periodo maturo, il cui inizio, una volta lasciata alle spalle la fase dell’arte programmata e cinetica – ma il rigore e la sobrietà tipici di tali tendenze saranno sempre un tratto distintivo del suo linguaggio – può collocarsi alla fine degli anni sessanta, più o meno in coincidenza con il celebre Archivio delle nominazioni (1969), e prosegue per poco più di vent’anni, stroncato solo dalla morte prematura. La mostra in esame, esponendo esclusivamente opere datate nell’arco del decennio ottanta, vuole essere un focus sulla seconda parte di tale periodo.
Personalità di indubbia, spiccata, originalità nel contesto della Napoli del secondo Novecento – ove le esperienze più interessanti degli anni cinquanta-sessanta-settanta passano per il concretismo, per l’oggetto o per l’azione, ma raramente innanzi tutto per la riflessione intorno agli strumenti dell’arte e, più specificamente, al problema della rappresentazione, mentre in età postmoderna la città diviene il centro italiano forse più emblematico della Transavanguardia con il suo ipercitazionismo, che non va appunto confuso con il dialogo intessuto da Alfano con l’opera di Caravaggio – mai nume, neanche inconsapevole, di una schiera di continuatori-epigoni sul territorio, malgrado la forza della sua proposta – gli artisti campani  di generazione più giovane nei cui modi si possa riscontrare un’autentica relazione con il linguaggio di Alfano si contano sulle dita di una mano –, Alfano connota dunque il suo percorso come una continua interrogazione su quello che è uno dei nodi cruciali per l’arte del Novecento e per il pensiero novecentesco in generale. Se le avanguardie storiche, fino all’Internazionale Situazionista, lavorano pe run superamento della rappresentazione, cercando una prassi senza più separazioni – e a qualcosa del genere negli anni sessanta-settanta pensano anche alcuni gruppi campani – ma sperimentano costantemente i limiti di tale tensione, Alfano – in un processo che, in parte permette di raffrontarlo, tra l’altro, con le esperienze dell’arte concettuale statunitense – scopre, all’inverso, lo scacco del rappresentare. Michel Foucault – riconosciuto dallo stesso Alfano come una figura cardine per se stesso e per tutta la sua generazione – non solo affronta, attraverso gli attrezzi della filosofia, la medesima questione in ambito artistico – si pensi, per limitarci ad un unico esempio, alla sua densa riflessione su Magritte – ma la estende in una critica generale della somiglianza, dell’identità e del soggetto, riconducendo tali nozioni a tecniche di potere – una valenza che del resto, implicitamente, potrebbe lecitamente riconoscersi anche nel discorso dell’artista napoletano.
Le opere in mostra, con la loro severità cromatica – prevalenza schiacciante di nero e bianco, mai alcun colore caldo – onde ridurre al minimo le distrazioni incidentali per il riguardante e concentrato sul cuore della questione – costituiscono così una sorta di campionario degli inciampi della rappresentazione: strisce nette che fratturano il campo pittorico; figure che si sdoppiano nell’impossibilità di ricongiungersi, o forse non sono mai stato un solo corpo; aree di colore, forme anatomiche, moti che inevitabilmente divergono, benché si sfiorino o si scontrino.
Ogni motivo aneddotico – si veda il mito di Eco e Narciso – non vale se non come trascendimento in una situazione plastico-concettuale. D’altra parte proprio negli spunti storico-mitici e nel correlato riferimento ad una secolare tradizione pittorica è possibile riconoscere quello che è forse il maggior elemento di divergenza rispetto ai modi dell’autoriflessione anglosassone, tipici ad esempio di un Joseph Kosuth. Se quest’ultimo avanza infatti notoriamente una distinzione tra analisi specifica su di un singolo medium – come appunto la pittura – ed analisi generale sul concetto stesso di arte, ritenendo che solo la seconda opzione sia quella da seguire, Alfano – e qui si potrebbe facilmente scorgere una traccia della matrice squisitamente europea, mediterranea, della sua ricerca – ricadrebbe piuttosto nella prima, circostanza che però non sembra precludergli l’articolazione di un discorso che va oltre il mero medium pittorico.

Stefano Taccone


 
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