Riccardo Dalisi Roma, Studio Trisorio

exibart / 16 luglio 2007


Riccardo Dalisi (Potenza, 1931) è un mite professore di progettazione, vive a Napoli e parla con voce calma. Non lo si associa immediatamente con le sue opere, soprattutto con i disegni nervosi e disarticolati disposti in sequenza su una delle pareti della galleria. Eppure è proprio da lì, da quei tratti veloci, insistiti, spasmodici, che il percorso artistico presentato dallo studio Trisorio dà l’idea di voler cominciare.
I segni grafici sferrati come fendenti delineano figure (il cavallo e il cavaliere sono un po’ il leit motiv della mostra) che appaiono nitide malgrado il tratto inferto con ossessività e durezza, come quando si prova la penna appena acquistata per vedere se scrive. Una tecnica che sembra voler dedicare poca cura all’esecuzione per enfatizzare il senso di dinamicità. Ma il vero valore di questo gesto si rivela poco dopo nelle figurette ricavate dai fili di ottone ritorti. Qui il senso esatto dell’outlining, del contorno, dell’intreccio di linee che racchiudono i pieni e i vuoti delle superfici finalmente si rivela. I segni, ora non più grafici ma plastici, si armonizzano, si richiamano, dando vita a sovrapposizioni, reticoli, incroci che delineano, in bi e tri-dimensione, un mondo immaginario se non surreale, rievocando, attraverso l’uso di materiali classici, le interpretazioni luzzattiane del genere fantastico.
Il cavaliere è ora un personaggio onirico, forse magico, sembra uscito da una favola; come le sue famose caffettiere, indecise tra l’Uomo di latta del Mago di Oz ed echi chagalliani, che rivelano quanto l’immaginazione riesca a rispecchiare se stessa anche nell’oggetto creato per farne un uso fra i più quotidiani, quale quello di prepararsi il caffè. L’opera, per quanto piccola, racchiude ora una storia: partenze, viaggi raggiungimenti, forse gesta eroiche, il tutto senza bisogno di grandi scenari o stuoli di personaggi. Basta un richiamo, un profilo, l’intuizione di un gesto.
La scultura di grandi dimensioni, invece, che nella sala minuta giganteggia facendola da padrone, è realizzata in ferro battuto in modo tale da perdere tutto il senso di durezza che questo materiale può dare. Si percepisce così una superficie calda, quasi setosa, priva della spietatezza del riflesso lucido del metallo. Così, anche il guerriero che sembra assestare il colpo mortale all’avversario finisce col dare il senso di una pietà profonda, intimamente sentita. E la testa di cavallo, affiancata dal lungo braccio con cui condivide il basamento, si predispone ad essere il serafico simbolo di un forte legame con la natura, ma anche di una spiritualità intensamente vissuta.
In quest’ultimo lavoro l’autore si avvale, come si evince dal titolo Paladisi, della collaborazione di Mimmo Paladino, con il quale condivide spunti e ispirazione, ma dal quale si discosta grazie ad un’amabile quanto melanconica liricità.

Valeria Silvestri


 
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