Francesco ARENA. Regola e prassi

segno / marzo — aprile 2021


Nonostante l’insistere sul dato, sulla misura, sull’ordine dispositivo degli elementi, il lavoro di Francesco Arena sempre si definisce a partire dall’impermanenza e dalla transitività.

Sono “luoghi”, le sue sculture, in cui l’osservazione sensibile si misura con lo spazio geometrico – dunque astratto, regolato – oltraggiando la compostezza del volume o della matematica a favore dell’esperienza, unica, sensibile, indicibile.

Un operare che assume nel suo centro quella gramsciana “filosofia della prassi” e che colloca da una parte l’uomo come individualità irripetibile, dall’altra la storicità e la dinamica dei processi di sviluppo della cultura occidentale.

In questa relazione topica e topologica, il nostro orientamento si confronta con l’inconsistenza di ogni paradigma, rinunciando al privilegio dell’ultima parola, della regola, per prodursi nel cambiamento del divenire. Facendo propria la lezione di Anselmo e di Fabro, Arena ammette, della scultura, il solo gesto di una affettiva deposizione, provvisoria, persino periferica, marginale: “messa all’angolo” nello spazio espositivo della galleria Trisorio, in questo caso.

Così la rosa rossa di Fiore curva (2020) “chiude” uno degli angoli disponibili adagiandosi nella costrizione delle forze che la tengono e trattengono nel mezzo. Recisa, e perciò mortale, la rosa è costretta ad abitare un altro mondo, differente da quello di origine, dalla sua stessa natura. Nuovamente Arena si sofferma sulla condizione sempre tecnica di ogni abitare: lo stare al mondo è innaturale, e ogni vita è un’eccezione. O un’eccedenza. Fissati i punti cardinali – Extrême Occident (2013), Extrême Orient (2017) – procediamo per ipotesi e invenzioni costruttive: quella letteraria del romanzo (il libro diventa struttura e geografia); quella musicale (il vecchio nastro magnetico di Endless Nameless dei Nirvana si scompone nella fatalità della sua forma indeterminabile); quella architettonica (scultura e spazio complici nel formare la cavità geometrica di Cubo, 2020). Ecco che la funzione strutturale degli angoli, dei cardini, dei princìpi cartesiani, produce un’apertura per l’immaginazione dove la sola regola possibile è l’autenticità dell’esperienza, la prova dei fatti: “fare la conoscenza”, come quando si incontra per la prima volta qualcuno o qualcosa. Questo, per Arena, è il solo assioma disponibile, la commistione tra le parole e le cose, tra il linguaggio e le strutture, tra gli eventi della storia collettiva e quelli della memoria privata.

Otto angoli, dichiarando la sovrapposizione tra numero, ordine e forma, è una mostra dall’aspetto di un teorema, è quasi una dimostrazione assiomatica, dove ciò che è posto ha la funzione di arginare, di segnare i limiti di un ragionamento, mentre all’interno tutto quanto è un vuoto agibile, occupato dal movimento del pensiero. Così è anche per Monolite liquido nero (2019), dove l’esattezza dichiarata del volume – i 100 litri di olio esausto – coincide con la totalità di spazio concessa dalle strutture circostanti, la vasca metallica che dà forma e che contiene la materia fluida, viscosa.

La virtù dell’angolo sta nel porre, coincidenti, l’apertura e la chiusura dello spazio; una sorta di doppia ontologia in cui e da cui il mondo affiora generando l’ambiente per effetto del suo prolungamento. In questo senso, nessuna libertà è concessa senza rifugio, l’aperto è possibile solo in quanto condizione posta da confini ben visibili, siano essi muri, leggi o costellazioni. Per Arena il senso delle cose sta nell’ordine culturalmente e storicamente determinato, ma anche soggettivamente attraversato e verificato ogni volta. Non dunque un kosmos arcaico, perfettamente in sé compiuto, o un saeculum cristiano, teleologicamente determinato nei suoi (con)fini, bensì un incessante farsi e disfarsi del mondo e delle regole, l’interrogazione del dubbio, del metodo scientifico: “mondo è ciò che la scienza fa, la meta che di volta in volta il suo operare raggiunge e supera – suggerisce Cacciari nel suo recente Il lavoro dello Spirito (Adelphi, 2021) – il sistema della scienza esige la rivoluzione permanente, la coscienza di sé”.

Se appare virtuosa, infine, la contingenza numerologica tra gli angoli della galleria napoletana – assunti dall’artista per mappare e organizzare le sue opere – e la portata simbolica dell’otto – termine-senza-termine del tempo illimitato – medesimo sconfinamento è concesso al tempo vissuto che le opere dell’artista da sempre interrogano. Tempo della memoria personale, biografica e familiare, spesso convocato e visualizzato entro le proprietà fisiche – lunghezze, altezze, pesi... – della scultura. Ed è proprio questo divenire, così caro al pensiero di Bergson e Minkowski, che riveste la superficie profondissima dell’opera di Arena. Ogni scultura diviene attestazione – o, persino, testamento – dell’aver vissuto, aver attraversato la storia. Come altrettanto testimoniale è Elle capovolta (2020), una scultura in rame che sembra contestare l’angolo, dissentire dall’impositura della forma, volgendo sottosopra la sua base grammaticale. “NOUS NOUS EN SOUVIENDRONS DE CETTE PLANÉTE”, recita la frase incisa in superficie, ripresa da Auguste de Villiers e assunta a proprio epitaffo da Leonardo Sciascia. “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”, celebra, e ancora racconta, quel che resta del monumento

Roberto Lacarbonara


 
Previous
Previous

La misura del tempo. Intervista a Francesco Arena

Next
Next

Arena e l’opera d’arte messa nell’angolo