antinomie — scritture e immagini / 7 ottobre 2022


È appena uscito per l’editore Hatje Cantz Aquila, il nuovo libro fotografico di Stefano Cerio, per la grafica di Giulia Boccarossa e con un testo di Stefano Chiodi. Il libro raccoglie le immagini del progetto realizzato da Cerio tra il 2019 e il 2021, in cui dei “gonfiabili”, grandi oggetti ludici di PVC colorato dalle forme infantili, sono ripresi nel vasto e scabro territorio della montagna abruzzese. Per la cortesia degli autori e dell’editore pubblichiamo il saggio che accompagna il volume.

Il terreno brullo, bassi arbusti color ruggine, una prateria riarsa chiusa sul fondo da un saliente di rocce. Basse nuvole lattiginose nascondono il cielo. Frammenti sconnessi di paesaggio periferico sparsi in uno spazio alieno: strade asfaltate, le sbarre mobili di un posteggio coperto di neve, uno strano tunnel di plastica e metallo, la ruota di uno skilift, un capanno sbilenco, le porte arrugginite di un campo di calcio, un abbeveratoio di cemento, una rotatoria scavata nella neve sporca. A chi lo sfoglia, questo libro si presenta a prima vista come un catalogo di luoghi senza nome, un disordine di cose gettate a capriccio in un territorio indifferente. Ma ancora più strane, e più incongrue, sono le altre presenze che lo popolano. Ecco a terra, in primo piano, una forma indistinta, uno strano ammasso afflosciato dai colori vivaci, rosso, giallo, blu. Uno scatto dopo l’altro, si solleva gonfiandosi sino a far apparire la sagoma rotondeggiante di una grande attrazione da parco giochi, un “gonfiabile” appunto, una forma goffa e amichevole simile a un doppio scivolo o a un trampolino, di quel genere facile da incontrare nelle aree giochi per bambini, nelle fiere, nelle feste paesane. O ancora, un’altra forma dapprima confusa, una massa di plastica marrone con qualche macchia celeste, che una volta piena d’aria esibisce una croce sul timpano della “facciata”. Una chiesa cristiana, o il suo incerto sembiante.

Col loro assortimento di fogge improbabili – l’elenco prosegue con il “campo di calcetto”, il “castello”, la “casa”, ecc. –, i gonfiabili sono gli inaspettati protagonisti delle immagini raccolte da Stefano Cerio in Aquila, una serie fotografica (accompagnata da un video) realizzata in Abruzzo in luoghi di grande suggestione paesistica non distanti da L’Aquila – la Piana di Campo Felice, Campo Imperatore, Pescasseroli –, in stagioni diverse tra il 2019 e il 2021. Di fronte all’obiettivo Cerio orchestra l’incontro enigmatico tra uno scenario naturale vasto e solenne ma oramai colonizzato da un turismo aggressivo e distratto, e strani oggetti fuori contesto, che si gonfiano e sgonfiano in un ciclo senza fine, nell’attesa inane di chi possa utilizzarli nel gioco. I gonfiabili sono solitari performers inorganici delle cui azioni l’artista e le sue appendici tecniche sono i solo testimoni, mentre a noi che li osserviamo a distanza resta solo la casuale, perturbante somiglianza con le presenze “reali” similmente abbandonate nel paesaggio.

Diversi e tra loro distanti sono i riferimenti di queste immagini. Anzitutto, certi quadri di Alberto Savinio degli anni Trenta del Novecento vicini alla poetica surrealista, dove giocattoli multicolori giganteggiano in paesaggi onirici come rovine di un’interminabile infanzia. La loro memoria si insinua in Aquila sotto e dentro l’apparente precisione documentaria della ripresa, amplificandone la risonanza perturbante. Questo e altri possibili rimandi visivi – gli oggetti pop a scala gigante di Claes Oldenburg, ad esempio, o i gonfiabili colorati portati sul sagrato del duomo di Firenze dagli architetti radicali del gruppo UFO nel 1968, o ancora le Riappropriazioni degli anni Settanta di Franco Mazzucchelli, installazioni urbane di grandi volumi pneumatici – aiutano a individuare i legami del lavoro di Cerio con un certo immaginario novecentesco, tra surrealismo, pop art e design visionario, ma non sono però ancora sufficienti a cogliere la specifica qualità metaforica e il campo di riferimenti di Aquila. In particolare, se le originali strutture gonfiabili concepite da artisti e architetti puntavano a demistificare e ad animare in senso ludico e critico l’ambiente urbano, con una esplicita critica alla sua alienazione e mercificazione, nelle immagini di Cerio il gonfiabile è in effetti già un prodotto industriale destinato al consumo, un frammento di un immaginario preconfezionato (i fumetti, le serie televisive animate, la pubblicità, ecc.) destinato a un pubblico di consumatori adulti e bambini, e dotato, a differenza delle forme dei suoi lontani predecessori, di una intrinseca ambivalenza. Ciò cui assistiamo in Aquila è in altre parole la denaturazione dell’utopia in surrealismo di massa, ovvero la conversione dell’eredità formale dell’avanguardia in risorsa dell’industria contemporanea del divertimento.

Gli accorgimenti compositivi e i caratteri formali delle fotografie di Aquila – la messa a fuoco profondissima, la ripresa frontale a distanza, l’illuminazione uniforme, la ricchezza di dettagli – proseguono l’estetica oggettiva e insieme spaesante che distingue il percorso di Stefano Cerio nell’ultimo quindicennio, a partire cioè dalla serie Sintetico Italiano (2007-09), una impassibile immersione nello sfatto paesaggio postmoderno della penisola. Se i riferimenti immediati del suo lavoro sono la fotografia di ispirazione documentaria e deadpan spesso identificata nella “scuola di Düsseldorf” e nei suoi capiscuola Berndt e Hilla Becher, come pure le eretiche esplorazioni degli spazi periferici condotte da fotografi-artisti come Luigi Ghirri e Lewis Baltz, Cerio guarda a questi esempi con grande libertà e con atteggiamento personale in cui si combinano un pungente gusto ironico e una costante benché altamente codificata attenzione al panorama sociale contemporaneo. Sono tutti tratti visibili in un’altra serie, Cruise Ship (2014), dove appunto una grande nave da crociera viene visitata come un teatro deserto di fantasie di evasione, un finto paradiso del consumo alla portata delle tasche poco profonde della smarrita piccola borghesia occidentale. Una galleria riempita dal tanfo di crema abbronzante cui potrebbero fare da adeguato contrappunto le pagine di A supposedly fun thing I’ll never do again, l’irresistibile reportage di una crociera ai Caraibi scritto nel 1996 da David Foster Wallace.

Anche altre serie fotografiche recenti di Cerio vedono protagonisti oggetti o luoghi destinati al divertimento di massa – luna park, water park, ecc. – presentati in condizioni inabituali, di notte, o in periodi di chiusura, fuori stagione. La serie Night ski (2011) presenta dettagli notturni di impianti per lo sci, illuminati da una potente luce frontale che li staglia sul fondo nerissimo del cielo, mentre le immagini degli impianti multicolori in stato di abbandono fotografati in Water Park (2010-11) compongono la scenografia malinconica di una festa finita e rivelano al tempo stesso lo sfondo periferico e impoverito da cui essa trae alimento. In Night Games (2017-18) ci si aggira di notte in un luna park chiuso, dove le attrazioni diventano presenze fantasmatiche, schegge di luoghi immaginari in cui il limite tra vero, verosimile e falso si fa incerto, paradossale. Un medesimo senso di straniamento, ma stavolta annidato in una serie di viste diurne, si annida anche nelle fotografie della serie Chinese fun (2015), dove parchi giochi e architetture dalle forme parossistiche mescolano impunemente riferimenti pop e kitsch pubblicitario, componendo un caratteristico ritratto della Cina contemporanea.

Rispetto a questi precedenti, Aquila introduce un elemento decisivo, un tratto performativo, una tensione e un movimento che danno ai gonfiabili una risonanza diversa, più drammatica in un certo senso, e segnalano l’aprirsi di un’ulteriore fase nel percorso di Stefano Cerio. Ciò che vediamo è il risultato di un’azione e non dell’isolamento di dettagli significativi: l’artista non si limita a registrare la realtà ma vi interviene attivamente, la modifica introducendovi elementi estranei con l’intento esplicito di visualizzare uno contrasto, una tensione non risolta. L’altro elemento determinante di questa serie, mai esplicitamente convocato eppure implicito in ogni immagine, è lo stesso territorio abruzzese e dunque la tragedia collettiva del terremoto che ha colpito la zona de L’Aquila e le zone limitrofe il 6 aprile 2009. Un evento che ha non solo segnato la rovina del centro storico del capoluogo e del territorio limitrofo, ma che ha profondamente alterato il contesto urbano, sociale ed economico e le sue prospettive future. Oggetto, dopo la catastrofe, di una campagna di ricostruzione difficile, contradditoria e a oggi incompiuta, l’Abruzzo ha visto addensarsi sul proprio territorio impulsi e contraddizioni della società italiana nel suo complesso, dalla solidarietà civile alla speculazione più volgare, dall’arroganza e ignoranza dei poteri pubblici alle straordinarie doti di resilienza della popolazione.

L’immagine di una natura primigenia, incontaminata, che sorge sullo sfondo delle immagini di Aquila è dunque contraddetta da forme che evocano simultaneamente l’orizzonte più ampio dei processi sociali della nostra epoca e la specifica condizione attuale di quello stesso territorio, ancora stretto in una interminabile emergenza. Il “fiato” che gonfia le forme colorate e poi le abbandona con un sibilo è in questo senso un ulteriore elemento significante del lavoro, con i suoi richiami ­artistici – vengono in mente i Corpi d’aria di Piero Manzoni o le sculture pneumatiche di Jeff Koons che detournano oggetti come bombole d’aria compressa, palloncini o giocattoli galleggianti giganti – e le sue valenze metaforiche. I gonfiabili di Cerio – penso in particolare alla “chiesa”, ispirata a quella distrutta dal sisma nel villaggio di Onna – alludono in effetti alla fragilità delle cose umane sottoposte all’azione delle forze telluriche e insieme alla loro capacità di resistenza, di autorigenerazione. Con il loro tendersi e afflosciarsi automatico, col loro ispirare ed espirare, le forme colorate sono in questo senso altrettante macchine celibi, dispositivi cioè che invariabilmente implicano e catturano il corpo umano, le sue funzioni biologiche e mentali, ne manifestano in forma inorganica desideri e pulsioni e dunque espongono, pure in assenza di ogni corpo vivente, un umanissimo desiderio di vita e di persistenza.

Gli oggetti informi poggiati sulla neve, sulle pietre, sui prati, si gonfiano in effetti da soli, apparentemente senza intervento umano: non vediamo cavi, macchinari, utensili. È come se con ineffabile umorismo i gonfiabili si riempissero d’aria di propria volontà sino ad assumere la loro fisionomia definitiva, solo per poi sgonfiarsi e reiniziare da capo, in un ciclo senza fine. Sono oggetti in cui si profila insomma una forma di animismo, una impensabile, perturbante forma di vita inorganica in cui la demarcazione essenzialmente moderna tra cose ed esseri viventi, tra natura e cultura, diviene difficoltosa. D’altro canto, non ci sono in vista bambini pronta a giocare: le forme rigonfie, del tutto estranee ai luoghi in cui sono immerse, restano prive d’uso. Sono sospese, in un’attesa che sappiamo già senza fine in uno spazio e in un tempo imprecisati: pronte, con le loro sagome fintamente familiari e già un po’ patetiche, ad accogliere chi vorrà utilizzarle.

La presenza enigmatica dei gonfiabili può essere letta dunque – e in questa ambivalenza va riconosciuta la qualità meditativa del lavoro di Stefano Cerio – sia come un segnale di rinascita, di possibile ritorno al futuro (poiché i gonfiabili attendono in fondo una nuova infanzia e la fioritura imprevedibile che essa arrecherà), sia, al contrario, come esposizione dell’inconsistenza delle orgogliose aspirazioni alla stabilità e alla durata delle società umane e del loro apparato tecnico, cui il terremoto ha sempre rammentato la loro intrinseca fragilità. Gli stessi paesaggi abruzzesi, aspri e severi, evocano in fondo questa distanza incolmabile. Aquila ci invita a percorrere lo spazio sottile che si apre tra la vitalità fantasmagorica e animistica dei gonfiabili e la maestosa e forse già compromessa indifferenza della Natura, tra una promessa di rigenerazione e l’incertezza sul presente: uno spazio insieme di riflessione e di immaginazione.

Stefano Chiodi


 
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