L’arte metafisica di Lawrence Carroll a Napoli

artribune / 2 giugno 2022


Il Madre di Napoli dedica una grande mostra a Lawrence Carroll, l’artista scomparso nel 2019 che guardava a Giorgio Morandi come un punto di riferimento imprescindibile per la sua pittura

Questa prima retrospettiva di Lawrence Carroll (Melbourne, 1954 ‒ Colonia, 2019) organizzata al Madre di Napoli e curata da Gianfranco Maraniello – da poco scelto quale direttore del Polo Museale Moderno e Contemporaneo di Milano – pone al centro dell’attenzione la potenza espressiva di un battitore solitario che ha sempre e instancabilmente meditato sugli strumenti della pittura. Impegnandosi in un discorso metalinguistico, d’interconnessione tra il pensare e il fare concretamente dell’arte, Carroll è infatti da sempre analiticamente attento alle componenti linguistiche dell’opera (tela, telaio, colore), ma le smaglia per assorbire al loro interno un più vasto orizzonte di pensiero che attinge dichiaratamente dalla realtà elementi d’alta valenza simbolica, legati al tempo, alla storia, alla memoria custodita nel ventre della materia.

LA MOSTRA DI LAWRENCE CARROLL A NAPOLI

Dopo una teca in cui sono presenti dei giornali (“in diverse occasioni Lawrence Carroll ha realizzato dei giornali che costituiscono il suo caratteristico accompagnamento di mostre o di momenti speciali della sua intensa e poetica pratica artistica”, leggiamo su un primo pannello a parete), ci sono, nell’accurato percorso carrolliano scandito secondo una metodologia aperta e coinvolgente che spazza via la rigidità cronologica, dei lavori recenti realizzati orientativamente tra il 2018 e il 2019, in cui frammenti di presente o di presenze sono risucchiati, incastrati, amalgamati a superfici dense di chiara e fisica emotività, tese ad accogliere, a ricevere, a registrare, a proteggere parole, immagini, segni, segnali, fiori e rami, sassi, lampadine accese o spente: occasioni della vita più esattamente, del quotidiano che scorre senza tregua e che non lascia spazio a dilazione ma forse soltanto a distrazione. Come pagine della mente screpolate dal sole, come sudari su cui si deposita la forza del pensiero poetico, come lenzuola sgualcite su cui si stratificano storie, le tele di Carroll presenti in questa grande mostra sono grezze, spesse, d’un bianco metafisico e avvolgente (Giorgio Morandi è stato un suo grande punto di riferimento) che è banco di prova, stratagemma perfetto per ridefinire sentimentalmente la realtà, trasformata in materia quasi impalpabile, vaporosa, inconsistente ma presente: sempre pressantemente, insistentemente, anancasticamente presente. “Cercai un colore che fosse il più possibile simile a quello della tela e cominciai semplicemente a stenderlo così da cancellare, in qualche modo, me stesso. Volevo creare un nuovo luogo per ricominciare. Volevo iniziare di nuovo, in un modo diverso”.

LE OPERE DI CARROLL IN MOSTRA AL MADRE

Closet (1994-2003), nella quinta sala, è un capolavoro assoluto. Proprio come un armadio o uno sgabuzzino (“un quadro che non disdegna la definizione di ‘guardaroba’ ”) aperto per offrirsi allo sguardo dello spettatore, Closet mostra scarpe (anche quelle regalategli da Robert Rauschenberg), merletti, fiori di stoffa, un cuscino, una riproduzione del caro Morandi e tanti altri oggetti intimi conservati quasi a definire una collana di ricordi sbiaditi, una riflessione sulla forza del pensiero che ruota attorno a se stesso e che si fa contemporaneamente locus e logos. “Mi piaceva l’idea di un quadro come fosse un luogo. Un luogo in cui entrare, da occupare, dove scaricare qualcosa che stavi portando con te. Una sorta di corpo”.
Tra i lavori in mostra – sono ottanta in tutto il percorso e coprono un arco temporale di oltre trent’anni, dal 1985 al 2019 – troviamo anche due preziosi progetti congelati (Carroll definiva il congelamento off-white colour) che ricordano il mastodontico freezing painting realizzato nel 2013 per il Padiglione della Santa Sede alla 55esima Biennale di Venezia e poi reinstallato nella mostra Ghost House, tenuta al MAMbo di Bologna fra il 2014 e il 2015 e curata sempre da Gianfranco Maraniello.
Ogni sala, in questa esposizione, è una sorta di momento del pensiero, un gioco infinito sui limiti dell’espressione, una sorta di ripetizione differente – potenziata però grazie all’utilizzo di escamotage che ricalibrano, rimasticano, rimasticano sapientemente oggetti organici e inorganici, assimilati a un territorio ovattato, pungentemente silenzioso, sovrastorico e sovratemporale.
Blue (1989-90) è, del percorso, un pozzetto di cielo che ci ruba lo sguardo (per intensità ricorda quell’angolo di cielo, in alto, a destra, che accende La caduta di Icaro di Carlo Saraceni) e ci porta via via in un territorio – questo il mondo di Carroll – dove troviamo presenze che consumano il presente, dove inciampiamo su poesie che hanno dimenticato il volto della parola.

Antonello Tolve


 
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