Riccardo Dalisi (1931-2022), le regole dalla poesia

il giornale dell’architettura / 26 aprile 2022


Noto e apprezzato nello scenario internazionale, con mostre e opere permanenti nei musei più prestigiosi del mondo, in un’Italia che divide il design dal fare architettonico è inesistente nei libri di storia dell’architettura, e nella città in cui ininterrottamente sperimenta e lavora è prevalentemente ricordato per la caffettiera napoletana e per il suo lavoro in luoghi marginali di essa. Ma è sufficiente porre in fila alcune date per avere ragione del suo poliedrico e significativo talento.

1970: promotore della geometria generativa, “tentativo di controllare il gioco delle trasformazioni nello spazio, di dirottarle, maturarle, di tradurre le pressioni che vengono da altri tipi di processi, in opportunità creative dello spazio”. 1973: con Ettore Sottsass e altri è tra i fondatori della Global Tools, contro-scuola di architettura e design con promotori ed esponenti dell’architettura radicale. 1981: Compasso d’Oro per la ricerca sulla caffettiera napoletana. 1994: rappresenta il design italiano a Copenaghen. 1995: inizio della produzione scultorea. 1997: il lavoro di Rua Catalana allestimento permanente, esposto anche al Museo di Arti decorative di Orleans, quando con la partecipazione degli studenti di architettura il lavoro di strada diventa Università di strada, Volante infine. 1998: Napolino selezionato dalla Comunità Europea come uno degli otto progetti pilota da adottare e diffondere nel mondo, per l’elevato livello culturale. 1999: premio al concorso europeo per la ricerca e il progetto di prototipi innovativi di automobili. 2005 circa: design ultrapoverissimo – poveri il materiale, chi lo lavora, la tecnica usata. 2010: prima edizione del Premio Compasso di latta, da una ricerca con alla base vivere in direzione della cura dell’ambiente. 2014: Compasso d’Oro per il suo impegno nel sociale.

Come l’antro di un mago che come il cielo azzurro sorride alla terra e ai suoi viventi, con ali a una fantasia ovunque diramata. Molteplice, lieve e profonda, rapida come il sogno, che però si posa creando forma. Architetto, poeta, designer, scultore, insegnante maieuta di lungo corso dentro e fuori l’Università, negli spazi di una Napoli tragica eppur gioiosa nelle sue radicate contraddizioni. Sa che non ha industrie, si rivolge all’artigianato stimolando in luoghi degradati e problematici la possibilità della forma con leva sull’immaginazione. Esito tardo (2013-15) è il lavoro nei laboratori nel carcere minorile di Nisida con genesi in quello di strada con giovani e anziani in Rua Catalana, poi Università di strada: frammenti e presìdi per un fare con a fondamento la sostenibilità sociale.

Ha occhi che vedono ed entrano su tutto. Una metamorfosi generosa abita la sua mente; prodigiosa, perché Riccardo Dalisi (Potenza, 1 maggio 1931) è un artista. Provoca il futuro, e per lui, come per Giordano Bruno, è dalla poesia che vengono le regole. Ordinario di Progettazione architettonica, dirige la Scuola di Specializzazione in Disegno industriale presso la Facoltà di Architettura dell’ateneo Federiciano di Napoli, città in cui lavora, animato dai doni di Francesco Della Sala: il seme della geometria generativa e la “scontentezza costruttiva”: “Metodo fondamentale”, dirà, “che ho usato in pittura, scultura, nel design, capendo che si poteva scoprire la ricchezza dell’immaginazione che va al di là del risultato, come se non ci fosse mai niente di raggiunto, come la vita che è fatta così”. Se non si parte da questo “sottofondo” non si comprende Dalisi e, quindi, anche il suo progettare senza pensare o progettare al di fuori della coscienza: “Sentire spazio e forma come qualcosa che viene da un soffio di vita… è il momento più genuino dell’ispirazione”.

I suoi lavori hanno abitano, e alcuni restandovi, i più importanti musei d’arte, di architettura e di design del mondo. Con lui cadono sovrastrutture culturali, muri, barriere, specializzazioni. Cattura l’imprevisto e va oltre, e da un territorio all’altro transita cogliendone il potenziale creativo, mentre la sua espressività, come quella dell’architettura radicale, si nega al “doversi collocare negli interstizi specifici di un particolare linguaggio” (Germano Celant).

Nascono così i suoi volumetrici racconti. Piccoli, grandi, introversi, aperti, estesi, sghembi, di traverso. Si annodano, si abbracciano, tendono al bacio. Tondi, quadrati, cilindri, cubi, coni, poliedri, e sempre “disturbati” e nessuno di essi può assimilarsi a qualcosa di già esistente. Una caffettiera non è soltanto una caffettiera; una madre non è soltanto una madre; e così una casa, una sedia, un’automobile… Animali, vegetali, umani, oggetti del quotidiano si mescolano generando forme che sfuggono a definizioni. Non una parola, ma più ne chiedono. Parole nuove per cose nuove. Hanno il sapore del popolo delle fiabe colorato e fantasioso: guerrieri, donne-madonne, omini scultura di latta [i “totocchi”; nell’immagine a fianco, © Archivio fotografico Alessi], e tuttavia sono attendibili nella dimensione funzionale, statica e dimensionale.

Uno scrigno da penetrare, quello di Dalisi, come l’invisibile che ha visto navigando libero, estraendo ovunque il bene e il bello che vi coglieva. Sapeva che la morte è compagna costante della vita, ma la sua di compagna era la bellezza per l’arte tutta. Anche la geometria era per lui arte: sin dall’alba degli anni settanta, quando il suo fare s’impregna di umanità con l’intuizione e l’errore, ritenuto anch’esso fonte d’immaginazione. Ha “camminato” in gran parte del mondo. Umile come gli autentici grandi del mondo, riconosciuto dovunque con il dono prezioso dell’amore, riversato in qualunque cosa abbia creato, sempre con molto lavoro e riflessione sul metodo: sul come e cosa, nel comportamento, nel disegno, nella composizione, nel comunicare coinvolgendo.

Antonietta Iolanda Lima


 
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